Il Simbolismo di ritorno nei Teatri dell'OniricO di Daniele Bianchi

 
 

Tante piccole frons scenae di legno, tante aperture singolari su dimensioni altrimenti inimmaginabili, questi Teatri dell'OniricO di Daniele Bianchi in mostra nella "Galleria Seghizzi" di Gorizia fino al 25 febbraio 2015. Le generazioni attuali hanno fatto del consumismo un Manifesto esistenziale. Tuttavia c'è chi getta e chi raccatta. C'è chi disprezza i resti della natura né considera quelli artificiali dell'umanità, e chi li custodisce con religione definendoli strumenti di ricerca rituale. Daniele ha indubbiamente la vocazione del raccoglitore. Una caratteristica della sua speciale poetica sta, infatti, nell'inseguire gli occasionali miraggi di una passione da girovago trovarobe. Il legno forgiato dal tempo e lisciato dall'acqua, i residui minimali di quotidianità rifiutate, le spoglie del passato - dimesse oppure illustri - sono bottini che convertirà in tesori. E ciò, facendone delle reliquie attraverso le quali testimoniare la propria fede in un'Astrazione necessaria. Egli assembla cimeli, concepisce molteplici finestre in allestimenti eclettici al cui fondale si aggiungono, per accumulazione direi spontanea, fattori disparati ma non contrari. Complicandosi, anche, di richiami vicendevoli, di ascese precarie e riconsegne impreviste alla materialità su cui poggiano le colonnine delle miniarchitetture decorative e, per estensione concettuale, i nostri piedi. Saldamente o meno. In tali strutture non sembra esservi premeditazione. È come se si autocostruissero, perché la mano dell'artefice vi si sottrae fagocitata dalle storie che ogni sostanza contiene ed effonde con voce alterna. Ora lontana ora vicinissima. Lasciandoci i suoni e le tracce del sogno in cui l'autore ha subito il suo prodigioso straniamento da Illuminazione progressiva. Nei primi "edifici" della serie spicca un fresco Naturalismo davvero affascinante per la grazia che ne ha permesso l'enuclearsi. Quasi tempietti consacrati a un dio arcaico (v. fig. 1, dreamlike bones, 2013). L'artista qui appare ben conscio di un fatto: gli oggetti, travolti sempre da una forza superiore, li si può salvare. A patto che, con un atto di devozione, se ne estragga l'energia residua soffocata da cinica trascuratezza. Preservare per incanalare in forme nuove, sembra essere il messaggio di Daniele. Rinominarli poi, gli oggetti, per ritornare al fulcro magico della loro origine, è bisogno derivato. Si compone così una rete fitta di analogie rare parlanti un linguaggio complesso: talvolta ambiguo ed iniziatico, talaltra solo all'apparenza palese, comunque essenzializzato con intenti paradigmatici. Perché le parole sono recto e verso delle cose. La loro anima resa vibrazione. Ecco stoor, dunque: altro non è che l'inglese roots, radici (v. fig. 2, 2014). Radici strappate al buio del suolo in più intricato frastagliarsi dei rami spogli che si innalzano verso il cielo a sondarne l'arcano. Cui l'autore si abbandona con una sorta di corrivo compiacimento - in un susseguirsi di spunti evocativi e paradossi - specie nelle ultime opere. Ricche peraltro di metafore da intendersi nel senso di un Metamorfismo costante. Tutto vi risulta trasformato. Persino quando gli elementi esibiscono una nascita tradizionale per cliché di scheletri, mezzibusti e statuine classiche che occhieggiano da porticine realizzate con materiali di recupero. Una contaminazione, questa, atta a introdurre suggestioni sibilline nella semantica dei pezzi esposti. Impossibile, pertanto, interpretarli in modo univoco. Se cercassimo di decrittarli a ogni costo con elucubrate ipotesi, li sminuiremmo nel loro potere di catalizzatori dell'immaginazione. Restando, nondimeno, beffati dall'imperscrutabile enigma della genesi.



Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Daniele Bianchi /
7 febbraio 2015