Il Vetro/Tempo di Alessandro Cadamuro

 
 

Definire il tempo nei suoi termini assoluti è impresa pressoché impossibile al linguaggio. Per quanto astratta la si scelga, non esiste parola o perifrasi atta a descriverne le specificità con immediatezza. E ciò, pur postulando un uso programmatico di elementi categoriali privi di qualsiasi azzardo filosofico.
Connessa al tempo è la memoria. Se volontaria non potrà fare a meno di coordinate sottoposte all’intelligenza: l’ieri, l’oggi e il domani interagenti in un ovvio processo di regolare trasformazione. Quanto consiste infatti si fa passato nell’istante stesso in cui accade, implicando di necessità il futuro, che si allarga nel mallo del suo essere mentre esplode il successivo presente. Precario sempre, in rapida corsa verso luoghi mai esplorati tra raffiche di un vento impetuoso che lo spazza alle nostre spalle. Chi scrive, quindi, deve fare i conti con dei correlativi oggettivi per suggerire pensieri altrimenti oscuri. Metaforismo e metamorfismo sono le uniche armi efficaci a una guerra perduta già in partenza, se non si sa travalicare il dato tangibile.
Proust - nella Recherche - ci ha sottratti all’impotenza del suo possesso attraverso la memoria spontanea, soggetta ai soli sensi e casuale generatrice di estensioni in cui coesistono - a livello di coscienza - due attimi analoghi in unità profonda. Miracolo, questo, rivelatoci nel famoso episodio della "madeleine".
L’artista invece - pittore, scultore, inventore performativo di fantasmagoriche installazioni che sia -, abituato in quanto tale a plasmare di sostanza fisica il suo estro visionario, si chiede come imbrigliarlo, l'ineffabile tempo, come riprodurlo. Con quale materiale rappresentarlo, dunque. Per Alessandro Cadamuro la risposta è: il vetro. Ossessivamente e per volontà. Vergine o riciclato. Talvolta quello di vecchi parabrezza infranti che lui rattoppa con lacerti di varia natura, sfiora di caratteri alfabetici e anima di visi semicancellati. Compresi, fissati, preservati nello spessore traslucido e usurato da eventi che sono là, in o dietro quegli strati. E ci arrivano colpendo il nostro osservare, prima un po’ stupito e poi completamente vinto. Il gesto dell’incantatore, compagno di ogni creazione, si concretizza, nel caso di Alessandro, con il recupero di scarti ormai consegnati al nulla della dismissione. La sua è un’arte concettuale, di scabra essenzialità, riconducibile alla ricerca della fonte ispiratrice primaria da proporsi nell’aspetto di un’impresa demiurgica. Rintracciare l’archetipo insomma, impoverendo i segni e riappropriandosi delle vicende umane non nei dati di cronaca spicciola, bensì nei valori di speculazione sul fenomenico e i suoi attori. Attraverso una grammatica nuova. Fornita o meno di una chiave d’accesso per decodificarne gli enigmi, sembra fattore irrilevante. Il suo mistero risulta sillabato sulla superficie nitida, sfida reticenze, aprendosi in orizzonti di saperi aurorali a chi si arrischia oltre il varco. Nessuna mercificazione, pertanto, nella meta dell’artista. Molto gioco di suggestivo lirismo nella sua vasta progettualità, in quel votarsi al sistema delle immagini, nell’inclinazione a espirarvi dentro diversa vita.

Parabrezza riassunti a crismi esistenziali, allora. Parabrezza narrastorie demistificatori di sé. Non più oggetti amorfi di oscene discariche ma entità scampate al naufragio per virtù mitopoietica dell’artefice. Entità portatrici della sua auctoritas quando li suggella rinominandoli. Così, in un deragliare estremo di sfrenata allucinazione, non sono appoggiati a pareti bianche, non si ergono da pavimenti impersonali sotto le luci crude di una sala espositiva. Fluttuano. In acquari provvisori. Vi trascolorano la loro temporalità mutante e annunciano l’endostruttura ontologica della testimonianza.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Alessandro Cadamuro /
8 novembre 2011