Le gialle colline e il mare


(con prefazione di Roberto Roversi)

 
 

Nucleo tematico centrale del libro di Antonio Catalfamo - Le gialle colline e il mare - è la trasformazione. Essa, come concetto fondante di demistificata coscienza, opera sull'inquieta fisicità dell'uomo facendolo astrarre dalla routine giornaliera scandita da incombenze, incontri, occasioni. Gli permette, per un miracolo insondabile, di scrollarsi di dosso il realismo del contingente; ne ridefinisce il profilo con un'enigmatica chiave di lettura e lo muta in una misteriosa unità nuova.
Sesto traguardo di un percorso poetico ormai ben delineato, l'opera dimostra che lo scrittore ha interiorizzato il metamorfismo al punto da renderlo una disposizione della mente e dell’anima. E' in lui e nei suoi personaggi, di cui esprime le pulsioni con una tensione chiara, sostanziata da antichi sensi simbolici. E proprio per questa profonda conoscenza dell'alterazione come variante di esistenza, in una delle prime liriche, dice della fanciulla andata a sedici anni a seguire le orme di Pavese: “Tu sei il mito / che si fa storia e scorre / nelle vene azzurre della fronte.” (pag. 19).
La mimesi arcana, rivelatrice della soglia della poesia, si fa storia quindi in un corpo di ragazza: una delle tante figure femminili che affollano, seducenti ed erotiche, il mondo dell’autore.
Immediatamente dopo questo dettaglio, altri segni della capacità di Catalfamo di rimodellare creature e fatti, di suggellare la materia in molteplici tracce dai contorni indelebili per straordinarie accezioni emblematiche: il verso del gufo come un accento lontano di pastore, un’evanescente interlocutrice sparita nella bruma (“Solo una stretta di mano / da ricordare, / le braccia nude, / il vestito della festa / e il sorriso screziato.”, da Partenze, pag. 20), i partigiani azzurri, il suono di clarino nelle baite di montagna, la voce di Pavese che parlava di donne, di luna e di falò, la morte del sindacalista Miraglia ammazzato dalla mafia e già sublimata in mito (A ritroso, pag. 21).
Riappare dunque il mito, l'artefice instancabile di forme talvolta appena accennate, più spesso vigorosamente tratteggiate, un essere vivo e pulsante che si nutre di eventi assimilandoli alla sua trama senza tempo, ora voluttuosa foglia d’acanto di un capitello corinzio, ora membra incaprettate e coperte di calce di un eroe contemporaneo. S'insinua lieve e guida la mano dell'artista in tocchi sapienti per innata vocazione, offrendoci quadri indimenticabili di fanciulle esaltate dal tessuto decorativo. Così Elena (pag. 42) dalle guance arrossate “come pampini al sole d’agosto”; così anche La ragazza di Udine (pag. 43) splendente per il suo sorriso di melograno; e così altrettanto la divinità lunare di Quasi Diana (pag. 55), dalle lunghe dita d’aurora, gambe di cerbiatto e seni d’uva moscata: tributi spontanei per le vinalie, il rito apollineo della poesia tra le viti. Ricompare ad aprirci spiragli, a svelarci in rapide illuminazioni la suggestione evocata dai testi: tessere di un mosaico intimo e anche tappe di un viaggio sentimentalonirico con un principio-partenza e una fine-arrivo.
L’itinerario proposto si snoda infatti, di pagina in pagina, dalle Langhe piemontesi alla Sicilia. Inizia, tra gialle colline, dal punto fermo di Santo Stefano Belbo e approda al mare scintillante di Sciacca, di Messina, dipanando un filo d’Arianna attraverso quattro sillogi: dalle metafore assolute del Diario pavesiano, irrequieto per la presenza dell'amato suggeritore d'esperienze e prove letterarie - Cesare Pavese appunto -, alla forza creatrice di Passato e presente; dal limpido dettato de L’eterno cammino, che di rado s’incrina in punta dolorosa (“…… a noi rimane / la speranza di Turoldo, / la verde musa, / stretta nel pugno insanguinato.”, da Miti, pag. 88), al concitato evolversi delle più recenti trasfigurazioni con le loro “labbra di carne macellata” nelle Poesie inedite.
Raccolte queste, tutte, accompagnate occasionalmente dalle inaspettate, e perciò più gradite, apparizioni di altri grandi modelli di scrittura del Novecento (Neruda, Pasolini, Quasimodo, Ritsos…), simili a visite di amici che si affacciano discreti tra le parole senza imporre ritmi, armonie, adattandosi compiacenti al clima personalissimo del flusso di emozioni. Un respiro tumultuoso turba la natura sanguigna che è protagonista del libro, una natura-donna, profumata di more e di prugne, di cappero e di malvasia, duttile creta per l'autore, demiurgo d'immagini e sensazioni in cui il suo Io prorompe per germinazione spontanea, rampollando da un grumo plasmato ad arte con la terra; da intendersi naturalmente nel precipuo significato di sostrato originario datore di vita, di tradizioni, di cicliche liturgie.
La sua è pertanto un'ispirazione riottosa a rinunciare agli agganci con l’immediatezza del presente e, allo stesso tempo, proclive a esisterne al di fuori, in perfetto equilibrio tra le visioni tramandate da generazioni di aedi che vivono “di canti e di carezze” (da Mitilene, pag. 67) e l’ineluttabile impossibilità di far capire l’essenza primigenia dei propri versi divenuti inevitabilmente “duri come sassi” (da Ultime tristezze, pag. 60); come il ricordo dei "…parti gemellari / sanati / con brodo di gallina." (da Nozze, pag. 74); come l'attesa delle madri, pronte a porgere il pane fragrante alla partenza delle barche, a prendere la cima al rientro in porto dal mare rosso fuoco (da Maternità, pag. 75). Quello epico di Omero.
E ancora una volta gesti arcaici, icastici bassorilievi di un passato che incessantemente s'infutura e allude a parvenze ammalianti di disturbate divinità tra gli accesi baluginii dell'assolato paesaggio mediterraneo.
Ombre fugaci intuite da Valentina (pag. 78), ragazza tecnologica, che "allevata con whiskas e carezze, / suona musiche zigane / fra i flutti vorticosi dello Stretto. / Scatena tempeste d'acqua marina, / improvvise metamorfosi della storia / nei verdi bagliori dell'iride.", mentre la Signora delle Vigne continua a vivere la sua illusione.
Ombre presentite dallo stesso poeta - vagabondo, averroista, vasaio per autodefinizione - incline a inebriarsi di acque terrigne, a bere le olive nere dei capezzoli della fanciulla "portatrice di anfore / dai piedi orlati d’argilla" (da Il carcere, pag. 120), nel nòstos al paradiso perduto della valle, dove d'improvviso si può avvertire, in un misto di gioia rattenuta e di oscura angoscia, il rapido passaggio di una chimera.
Quando le pareti dei castelli d'Atlante per un momento si dissolvono, gli argini si sgretolano, cade ogni ipocrisia e il sogno può farsi realtà.



Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Letteratura / Antonio Catalfamo/
3 ottobre 2013