Il peccatore, ‘notte, stella di Alessandra Rea
D’amore e di morte

 
 
Tema essenziale de Il peccatore, ‘notte, stella è l’amore tra la protagonista, Ludovica, e Abraham, un sacerdote. Con tutto ciò che comporta una passione che ha Dio per apparente oppositore.
In questo romanzo pertanto, complesso e intrigante, l’autrice, Alessandra Rea, lancia una sfida coraggiosa che è come un sasso gettato nelle acque ferme di un lago. I cerchi si allargano, mentre il sasso penetra il mistero di un mondo tanto intimo da darci l’impressione di forzarlo e violarlo, se ci risolviamo a tentarne i divieti. I cerchi rappresentano naturalmente la metafora dei nostri dubbi, degli interrogativi pressanti, delle riflessioni, anche scomode, che fluiscono inevitabili, quando, ormai agganciati dalla narrazione, capiamo di non avere più scampo. Gli strati della nostra quotidiana ipocrisia cedono davanti ai rovelli, alle turbative che un argomento così delicato e, per certi versi, scabroso pone.
Sin dalle prime battute cogliamo la grana del libro. Oltre i vetri della stanza in cui Ludovica giace inerte cadono foglie giallorossomarrone, travolte da un vento autunnale misto a pioggia. Sono creature prive di linfa, speculari al corpo appoggiato alla parete, e per ciò stesso simbolo di femminilità inaridita con il loro trascolorare.
L’incipit, stilisticamente compatto e denso di pathos emozionale, ci presenta dunque Ludovica morta.
Suicidio è il verdetto del medico legale. Un’intermittenza del cuore, per chi legge, il pensiero che lei, bella da togliere il fiato, ancora seducente pur nell’abbandono estremo, il volto aureolato dalla chioma rame acceso come un’immagine preraffaellita, calco stupendo forse della Beata Beatrix di Dante Gabriele Rossetti o dell’Ofelia di John Everett Millais, lei, che esprime anche esanime la particolarità del suo essere, proprio lei abbia deciso di rinunciare alla vita.
E non ci può credere infatti il Commissario Aloisi, cui è stato affidato il caso: un’inchiesta senza colpevoli materiali, un’indagine alla ricerca della verità, un processo che scandagli il viaggio esistenziale di Ludi e ne rimandi intatta la statura morale. La sua sola colpa è stata in fondo quella di amare e volere un amore gioioso, che desse vita, nella purezza totale dei sentimenti, senza far torto o patirlo. Godere la pienezza dei sensi e dello spirito, confondersi con la persona amata è la sua vocazione di donna. Se la possibilità di questa completezza viene rubata dall’ossessione per un ministero sacerdotale che mortifica le pulsioni con un feroce rimorso, concedendo come scarso viatico incontri fugaci in un futuro malcerto e sempre clandestino, ben venga la pienezza della fine. Il suicidio quindi non è dato dalla disperazione ma dalla persuasione che, nulla avendo di retorico o di repentino, offre l’alternativa a un durare inautentico.
Altri personaggi poi intrecciano le loro storie con quella dei due primi attori, fornendoci chiavi diverse di lettura e molteplici prospettive, a volte straniate per precisa volontà del narratore esterno alias autrice che, da onnisciente qual è, può liberare il dramma iniziale con tono umoristico, collocandolo tra il pianto per il suicidio di Ludi e il riso per la caricatura fabulante della portinaia Morlatti. Figura, questa, di breve apparizione ma affatto secondaria; una popolana linguacciuta e semianalfabeta senza dubbio, eppure fondamentale nella trama giacché a lei va il compito di caricare la chiave del racconto aprendolo ai protagonisti che agiranno in seguito alla sua comparsa in scena.
Così, inizia a parlare anche Abraham, dalla dimensione astratta in cui scivola, soprattutto quando tenta di decifrare i frammenti della sua anima divisa. Sul discrimine di un’esistenza in bilico tra sacro e profano, incapace di privarsi di Ludovica che lo attrae come una droga stordente, dopo drammatici sussulti di ricusa del suo peccato carnale, pentimento per il sacrilegio profanatore della promessa giurata al Signore, disgusto dell’accidia che lo connota, finalmente capisce: l’amore per lei è “unico e intenso” come quello per Dio. D’improvviso la luce gli dilaga dentro e lo porta al vertice della comprensione incondizionata che troppo spesso si è negato. Allora, ormai del tutto libero, sceglie, accettando la compagna terrena destinatagli dalla Volontà del Creatore.
Decide. Ma troppo tardi.
Devastante conflitto intimo, rinuncia, sacrificio sono quindi le componenti della narrazione, in un inseguimento sentimentale ben orchestrato dal ricordo che è filo conduttore dell’opera: Aloisi ricorda la tenerezza del primo incontro con Ludi, Ludi ricorda, anche Abraham ricorda. E il tempo scarta, si impenna, ritorna all’origine. Sbanda seguendo ineluttabili derive esistenziali. Fino al naufragio come soluzione annunciata. In un crescendo di memoria involontaria i pensieri sgorgano naturalmente, il passato ritorna spontaneo, scaturendo dagli strati della coscienza, con un’evidenza ben più chiara della realtà. Per un febbrile intuire progressivo di indiscussa matrice bergsoniana.
E sulla scansione concitata degli avvenimenti - talvolta anteposti gli uni agli altri, oppure posposti per aritmie cronologiche assolutamente evocative, di rado in corsa parallela -, la morte si fa compagna della vita e la alimenta, diventando rivalsa, riscatto, furore ribollente in Athina, la figlia di Ludi, sua copia energica e rabbiosa. Lei è un fulmine che squarcia il cielo con furia apocalittica, è una dea della vendetta che brucia, riduce in cenere e contempla, ancora alterata, i resti dell’incendio appena appiccato, ovvero l’inizio della seconda catastrofe: quella a scioglimento dell’intera vicenda.
Alla fine, attraverso i percorsi segreti e imponderabili dell’anima, sondati con saggezza sofferta da Ludovica, in modo visionario e magico si potrà compiere il miracolo di convertire il fango del vivere in amore allo stato puro.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Letteratura / Alessandra Rea /
29 luglio 2013