Sole e ombra di Cinzia Tani

 
 

Sole e ombra: titolo-emblema, questo, di una vera e propria metafora esistenziale.

Il libro è avvincente e teso sin dalla prima pagina, che ha un inizio fulminante. Scrive Cinzia Tani: “Poiché sua moglie aveva partorito una bambina, Ricardo Morales non tornò a casa.”. E chiude la frase con un punto fermo che suggerisce mondi di sottintesi, aprendo riflessioni. Poi, sempre icasticamente, con il taglio misurato e asciutto che si deve a una notizia di cronaca, aggiunge: “Raggiunse Malaga e si imbarcò per il Marocco.”.

Un accenno ancora alla bimba appena nata (Nina), al sogno in cui cade Manuela, la madre, alle preghiere recitate sgranando il rosario, al prete, don Emilio, chiamato d’urgenza…, e il filo incomincia a dipanarsi con una suggestione misteriosa che ti aggancia alla lettura, obbligandoti a percorrere le pagine successive. Appaiono così, a poco a poco nei vari capitoli, i personaggi, si modellano i loro caratteri sullo sfondo della Spagna dei primi anni del Novecento, i cui tratti peculiari sono rappresentati con una tecnica simile a quella dell’affresco, a pennellate veloci e dense allo stesso tempo, perfette per delinearci le componenti essenziali alla comprensione del tutto.

In tale modo ogni invenzione, o vero poeticorumores, le dicerie, che tanta freschezza di parlato offrono all’esposizione (cap. 19, pag. 205: la morte di Emilio Mola).

Quando si arriva poi agli anni ’30 e alla guerra civile spagnola, allora il racconto fluisce in modo incalzante e si intrecciano più strettamente i destini dei vari personaggi.

In un caleidoscopico rincorrersi, toccarsi, sfiorarsi inconsciamente, trovarsi, perdersi per poi ritrovarsi, i protagonisti, Nina, Julian, Michele, si cercano tra loro e cercano loro stessi in un’incessante inchiesta esistenziale.

L’inchiesta quindi pare tratto caratterizzante del libro.

Ma la materia è vasta e, se puntiamo ad andare ancora più a fondo per cogliere l’anima del libro, credendo di trovarla solo nell’amore perché dominante all’apparenza, perché un incontro (Julian e Nina, Nina e Michele) ci fa supporre che questa sia la meta a cui l’autrice tende anche attraverso l’accentuazione visionaria del colore rosso (quello della passione?), immediatamente dopo restiamo spiazzati. Un tanto perché le trame si rarefanno, d’improvviso, si condensano in un episodio folgorante che ci porta a intuire un’altra venatura dell’opera: l’inettitudine al vivere. Come una sorta di noluntas schopenhaueriana essa caratterizza l’intellettualità introversa, perplessa, umbratile di Julian, né può essere corretta dal generale attivismo della guerra civile o dalla riflessione darwinistica sull’adattamento in cui si plasmò in realtà l’inetto sveviano. Vari rivoli ambigui poi nutrono lo snodarsi degli eventi: la morte dalle molte facce, l’atto eroico che salva; la rinuncia; e il sacrificio.

Questo allora è un romanzo dalle tante anime.

Se vogliamo però mirare l’indagine a scoprire il prisma che tutte le contiene, direi che proprio il connotato che ci si era rivelato per primo, l’inchiesta, frutto dei fermenti del ‘900 e qui particolarmente intensa al femminile, ne forma il cuore. I protagonisti pertanto, principali o secondari che siano, si muovono in flussi e riflussi, in azioni che si compongono e si scompongono, con precise differenze psicologiche lungo quella direttrice.

Ora, colto quest’aspetto, un’ultima domanda si affaccia spontanea: qual è l’elemento che dà unità al tutto?

È la tonalità media - da intendersi nel senso di medietas come corretta misura. È la gradazione discreta del sentimento dell’autrice che entra nella sostanza degli episodi, dei personaggi, delle stesse pulsioni naturali, e la elabora, la dispone in ordine, la armonizza facendo dialogare tra loro diversi modi di vedere il mondo senza cristallizzarsi in un’idea univoca. Quel sentimento è come la filigrana musicale leggera di un’orchestra che suona in sordina.

Parlo dunque di una Narrazione polifonica alla Michail Bachtin. Nel suo sistema nessuna idea di fondo domina incontrastata e le voci dei personaggi vivono autonomamente accanto a quella dell’autrice. Che peraltro mai si impone in un giudizio definitivo, unico, incontrovertibile su quanto, infinitamente molteplice e vario, va narrando.

Ne nasce la concezione di un uomo in rapporto con se stesso e con ciò che è clandestino, il suo sottosuolo, ovvero il podpolje dostoievskijano, come luogo della contraddizione per cui si può essere assieme buoni e malvagi, eroi e inetti. Per cui insomma, in un palese Realismo verticaledivisione dell’io e del doppio (si vedano Loris e Michele), si è comunque e sempre salvi. O innocenti.


Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Letteratura / Cinzia Tani /
17 novembre 2008 (Care_Cassandre / Festa della Cultura goriziana)