Il suicidio di Carlo Michelstaedter: un'ipotesi

 
 

3 settembre 2013.
Sto leggendo le liriche di un autore giapponese, Shinkichi Takahashi, vissuto tra il 1901 e il 1987. Di lui si sa che, dopo essersi ritirato nel Tempio Shogenji Rinzai a Tokio, ricevette l’illuminazione. Sui quarant’anni, racconta la sua mitologia.
L’ambito è dunque quello della poesia zen, il clima religioso quello buddista.
Una composizione mi seduce più delle altre. Parla di un uomo, Vimalakirti, che viene da Vaisali, una località dell’antica India al confine con il Nepal. Egli è seguace del Buddha e persuasore per eccellenza, si finge addirittura malato per chiamare gli scettici al suo capezzale e convincerli. Le ultime due strofe recitano: “Malattia, un’opinione, / per lui il corpo è zolla, acqua, / movimenti, fuoco, vento. // Vimalakirti, eroe profano, / con una parola trascina galassie / ai piedi del suo letto.” Mi abbandono al loro senso segreto accordando una sequenza intuitiva: malattia / persuasione / illuminazione / salute. Penso di colpo a Carlo Michelstaedter. Lo pongo a fianco di Vimalakirti. Li sistemo vicini questi due paradossali compagni e rifletto. Il malato - non malato Vimalakirti e il non malato - malato Michelstaedter, a confronto.
Bella sfida! realizzo ansiosa di sapere dove mi condurrà.
Recupero d’istinto i numerosi studi condotti sul giovane goriziano. Mi figuro Carlo nello splendore dei suoi vent'anni. Bello dei tanti dubbi, esaltazioni, convincimenti tipici di un carattere focoso. Ripercorro i probabili rovelli che ne suggellarono la decisione estrema del suicidio. Mi scorre un film virtuale nella mente i cui fotogrammi sono pieni di vivide sensazioni più che di morte. Mi soffermo ancora sull’inattendibilità delle due immagini: lontane, di certo surreali, ma perciò più evocative. Pongo un’ipotesi, mentre le parole malattia / persuasione / illuminazione / salute continuano a pulsarmi dentro.
Carlo come Vimalakirti, è capace di trascinare galassie.
Potenti entrambi per l’energia del loro pensiero: Vimalakirti, volontario finto infermo che induce con la sua logica serrata al raccoglimento interiore; Carlo occulto persuasore di se stesso e infermo inconscio, altalenante tra amor di vita e amor di morte. Ambiguo dunque, abitato dalla vita e dalla morte in gioco tra loro con un ritmo cadenzato di trasformazione e retrotrasformazione. Che è poi quello del suo scritto più famoso: Il canto delle crisalidi. Un classico a cui torniamo sempre: “Vita, morte, / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita. // Noi col filo / col filo della vita / nostra sorte / filammo a questa morte. // E più forte / è il sogno della vita -/ se la morte / a vivere ci aita // ma la vita / la vita non è vita / se la morte /la morte è nella vita // e la morte / morte non è finita / se più forte / per lei vive la vita. // Ma se vita / sarà la nostra morte / nella vita / viviam solo la morte // morte, vita, / la morte nella vita; / vita, morte, / la vita nella morte –”
Il canto delle crisalidi con il suo lento salmodiare mi ritrascina nel mondo zen e alla dottrina del Buddha. Sembra un Mantra Śānti, il Mantra della pace profonda, esente da morbi, paure, illusioni, difficoltà mondane. Un mantra scandito a rituale di riconoscimento. Una formula magica quasi, per rendere attivi desideri o intenzioni. Sacro pertanto, salutare, non ossessivo.
La ricerca di una via personale all’esistenza è evidente nelle varie tappe del viaggio terreno di Carlo Michelstaedter. Si enuclea piano, si gonfia, esplode. In verità rivelata. Chiare le pagine del Dialogo della salute. Portano la malattia come il vivere sulla soglia tra la vita e la morte. Malattia da puro dolore. Da disadattamento. Dolore chiuso, negativo.
Malattia come un filo con a un capo la vita, all’altro la morte. Che si sovrappongono mentre lo recidi, e rendi la vita morte, e fai di te l’artefice dell’atto supremo, il sommo artista della tua ineffabile opera.
Mi fingo la scena. Sullo sfondo indistinto due donne bellissime e ieratiche, due Dee della Vittoria dalle ali spiegate, dal corpo plasmato di alabastro traslucido la prima, di basalto nero la seconda, dipanano il filo della vita/morte che sparisce nelle loro mani. Al centro si staglia Carlo. Egli lo afferra, lo soppesa e lo taglia di netto, quel filo. Ne rivendica il possesso consistendo nell’attimo. Riversando la sua vita nella morte, intanto che si spegne qualsiasi luce e si concretizza il buio, il suo mistero, il non essere, il non percepire e il non essere percepito.
Non più malattia, dunque.
Quando recidi lo stame della vita, hai scelto.
Non importa se per lucida risolutezza o per disperazione. Importa che tu abbia scelto l’unica forma di libertà di cui puoi godere: la libertà per la morte.
“… morte, vita, / la morte nella vita; / vita, morte, / la vita nella morte. –”
Sussurriamocelo anche noi questo mantra che amplifica lo spirito.
Perderemo ogni paura.



Irene Navarra / Quaderni di critica / I saggi di Artemisia / Carlo Michelstaedter/
16 ottobre 2013